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Could the king of Rome die?

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Un grandioso pretesto per parlare di sport e narrazione in un giorno pretestuoso

di Giacomo Gabbuti e Luca San Mauro

Alzata di mani

(sarebbe “Premessa”, ma oggi è un altro tipo di domenica, oggi è Prederby).

Ci accingiamo a un’impresa inumana.

E’ dubbio se queste nostre parole potranno far compiere un passo, anche minimo, all’umanità; è certo che queste parole costituiscono, per noi, un passo enorme. Tentando di analizzare, non certo per primi, il fenomeno di Francesco Totti, abbandoniamo i porti sicuri del fideismo verso l’ignoto: è un grande passo fuori dalla nostra romanità.

Ciò di cui parleremo, difatti, non è semplicemente un fenomeno sportivo unico nella storia moderna – e statece, tutti, ‘na vorta pe’ tutte. Si dà il caso che sia anche un fenomeno sociale, di cui entrambi siamo, da romani e romanisti, parte attiva e sofferente. Anche questo fenomeno, forse meno unico, si è meritato una tesi di dottorato di antropologia alla Columbia University – mica Oxtia.

Osiamo farlo in un giorno cruciale per i destini della Città che si dice sia eterna, ma che ogni giorno si sveglia un po’ più vecchia.

Lo facciamo da romanisti, da cultori dell’idolo che, attraverso anni interminabili, ci ha educato alla bellezza, all’irripetibile, alla nostalgia di ciò che ancora vive – cazzo se vive.

Ma lo facciamo da critici, da redattori di quattrocentoquattro.

Non c’è cosa più difficile, riteniamo, per un romanista, che analizzare criticamente Francesco Totti. Non immaginiamo nulla di più ardito, se non farlo in due. Perché il minimo dubbio, pronunciato ad alta voce diventa eresia: e anche tra redattori, compagni, amici, serpeggia il sacro terrore della blasfemia.

Ci accingiamo a un’impresa inumana.

Noi ne siamo consapevoli. Sapevatelo, anche voi

28 Marzo 1993. Si gioca Brescia-Roma e la Roma sta vincendo due a zero. A un minuto dalla fine, Francesco Totti fa il suo esordio in Serie A. La radiocronaca di Alberto Mandolesi registra così: «…e poi, e questo diciamo è il “fatto storico” – vogliamo un po’ esagerare – è uscito Rizzitelli e ha lasciato il posto al giovane Francesco Totti, che quindi conosce il giorno dell’esordio in una giornata chiamamola di “gloria”, sto parlando con un po’ di retorica oggi..una “giornata di gloria romanista”, una vittoria fuori casa…». Vent’anni dopo, ascoltando questo frammento, si può ricevere una parziale sensazione di irrealtà: le parole sono troppo esatte, la profezia fin troppo riuscita.

L’esordio di Totti è davvero un momento storico? Ovviamente lo è, ma può esserlo già mentre avviene? come si fa a stabilirlo con certezza il 28 Marzo del 1993? Lo stesso cronista alterna, in poco più di due frasi, un’eccitazione mal trattenuta e una certa dose di perplessità, invocata per stemperarla: con un’oscillazione che porta prima al “fatto storico”, marcato da un “vogliamo un po’ esagerare”, ritorna a battere sulla “gloria”, prima di chiudere “con un po’ di retorica”.  

Nel 1993 Totti è un ragazzino. Ha sedici anni e mezzo: ha già impressionato in ogni campionato in cui ha giocato, ma basta questo a segnare in modo così deterministico il suo esordio? A imporre una direzione alla sua carriera, e insieme a imporre il registro narrativo con cui andrà raccontata?

Fin dal primo istante, Mandolesi esclude che ciò che sta osservando possa non essere affatto storico. Che la carriera di Totti si possa risolvere in un fallimento, o in un altrimenti qualsiasi. Dalla Tribuna Stampa dello Stadio Rigamonti, una voce ci descrive il Totti che, vent’anni dopo, ci pare perfettamente familiare. Certo, si intuisce sia una voce esperta dei suoi percorsi nelle giovanili: ma quante poche partite rispetto a quelle che avremmo ammirato negli anni successivi!  Se è una profezia, è certamente riuscita. Ma è la carriera stessa di Totti una profezia autoavverante? Era necessario, inevitabile, farne la profezia di qualcosa?

Dal momento esatto del suo esordio, Totti non potrà (vorrà?) uscire dal cono d’ombra di successive narrazioni. In particolare, sembra aver attraversato, in modo sfumato, quasi senza soluzione di continutà, perlomeno nella memoria romanista, i due archetipi fondamentali del nostro modo di raccontare lo sport: la giovane promessa, il talento naturale così evidente da essere necessariamente indirizzato verso qualcosa (ma cosa, appunto? una carriera sfolgorante all’estero? il terzo scudetto da’a maggica? quegli stessi record – gol con la Roma, presenze con la Roma, gol con la stessa maglia – impensabili prima di lui? promessa di che altro ancora?); e il vecchio leone, l’eroe sistematicamente dato per finito, che vivissimo risorge nel fuoco di ogni battaglia – sia la conquista della Coppa del Mondo o l’inseguimento all’Europa League – annullando qualsiasi variabile anagrafica.

Qualunque fosse la promessa, nel primo Totti c’è una componente di quasi inevitabilità. Se nel gennaio 1995 viene definito un gioiello in cassaforte”, a ottobre Francesco è un talismano invocato”, per divenire già a dicembre una luce su Roma”. Poco dopo inizierà il precoce e prolungato passaggio di consegne con Giannini, che gli prometterà la maglia prima, molto prima di ritirarsi, facendogli da chioccia come richiestogli da Mazzone. Totti, in primo luogo, deve diventare Totti – e non può fare altrimenti. Cosa prometta il pupone, l’Europa tutta lo scopre in una serata olandese: quando il numero 20 azzurro resiste alle cariche francesi e invita Di Biagio all’inserimento con quel colpo di tacco che poteva renderci Campioni d’Europa; quando ancora dopo un contrasto libera in pallonetto il 10 bianconero, Del Piero, per quella che resterà una promessa amara.
Il 2 Luglio 2000 Francesco Totti è già numero 10 e capitano della Roma; è stato appena premiato come “miglior calciatore giovane” dall’AIC.

Del secondo carattere – il campione inesauribile – diventa un interprete lunghissimo e perfetto, quasi antonomastico: l’immagine del giocatore che non può finire («the King of Rome is not dead») è ormai così interna al racconto di Totti da costituire uno dei suoi motivi essenziali. Così, mentre il sistematico abbattimento di record è celebrato da giornalisti che non sanno come capacitarsi del fatto che un trentasettenne possa avere il fiato di un ventenne – e che sia un record anche il numero di giornalisti da cui l’abbiamo sentito dire per il Capitano? – per un tifoso la medesima esperienza ha una portata ancora più straordinaria. Totti è stato per generazioni (quante?) di giovani romanisti una prolungata palestra alla stupefazione: andare all’Olimpico, sedersi sul divano, vuol dire esporsi alla certezza dello sbigottimento – una, due, tre o quattro volte nei momenti migliori. Alla naturale sensazione di impotenza fisica cui ci espone l’atleta – «come ha fatto a farlo?» – Totti aggiunge la percezione di una radicale insufficienza cognitiva – «come gli è venuto in mente?».

E qui, a un certo punto, sembra esser accaduta una mutazione – un’interferenza – come se l’abuso di questi due archetipi – quello di giovane promessa sino alla vigilia dello scudetto, quando era forse il calciatore più forte d’Europa; quello di vecchio leone da almeno sette anni, dal Mondiale 2006 – abbia finito per deformare lo strumento stesso. Raccontandolo, abbiamo conformato Totti alle figure del nostro pantheon epico, tanto che queste immagini hanno assorbito alcune cifre peculiari della figura di Totti e del modo (più o meno neutrale) di riceverlo. E’ forse più evidente sulla seconda immagine di Totti, che è imperniata sull’iterazione nostalgica di qualcosa di irripetibile. Non è un ossimoro: qualunque tifoso conosce benissimo il sentimento d’improvvisa nostalgia nel vedere Totti fare – di nuovo! – uno qualsiasi dei suoi colpi di tacco. Parafrasando il giovane Guevara de I diari della motocicletta, «è possibile avere nostalgia di qualcosa che si sta ancora vivendo?».
Collettivamente, uno Stadio intero – un popolo – ha vissuto, da almeno sette anni, ogni partita di Totti come, potenzialmente, l’ultima. L’ultima del Totti che conosciamo, e insieme il ricordo della promessa del primo Totti che abbiamo visto. Ogni domenica, il rito va in scena: qualche incredulo recita il suo stupore: «E che non lo sai?»; «Non ci posso credere».

Questa nostalgia, così particolare, ha finito per contagiare l’intero archetipo: la metafora del vecchio leone è diventata, in definitiva, la metafora di Totti stesso. E del resto, dopo vent’anni, di quale narrazione si può essere immagine in modo così metodico se non della propria? C’è il rischio, a forza di stabilire continue mediazioni tra il giocatore e il suo racconto, di aver perso, forse, contatto da Francesco Totti. Come se non avessimo altri modi, oramai, di ricevere i suoi gesti, passati e presenti, se non inserirli in un materiale narrativo precodificato, in uno dei due archetipi di cui discutevamo.

Cosa hanno in comune infatti queste due metafore? Anzitutto, il prestito dall’epica. C’è il proposito, nemmeno troppo implicito, di usare per il racconto di Totti, una qualche versione dell’epica classica (nei suoi materiali di scarto). Le sue pagelle, ad esempio, registrano una sconvolgente continuità lessicale: formule iterative – «il solito faro», ma anche «l’ultimo ad abbandonare la nave» – sembrano forse dirci che tutte le prestazioni sono la stessa prestazione?  C’è di certo lo zampino di Totti, che ha appunto il merito di ribadire perennemente l’eccezionalità. Ma va pur detto che l’abuso di questo registro non fa che standardizzare le prestazioni in un solo, stanco racconto.

Allora, dove è l’errore? Cosa c’è di sbagliato in questo modo di procedere? Se vogliamo usare uno slogan, il problema – o piuttosto il limite – consiste nel prendere costantemente lo sport come allegoria di qualcos’altro. Di richiedere che la figura di Totti sia perfettamente aderente a un certo materiale, di origine o ambizione parzialmente letteraria, che abbiamo costruito per lui. Il materiale è nello stesso tempo malleabile, nel ridefinirsi secondo le caratteristiche di cui lo stesso Totti lo riempie, e rigidissimo nel limitare la nostra comprensione di queste caratteristiche su di uno spettro lessicale e conoscitivo spaventosamente ristretto.

E se invece Totti  (metonimicamente: lo sport) bastasse a se stesso? Se invece le dimensioni del contenitore di esperienze che la figura Totti definisce fossero sufficienti a rinunciare alla formulazione di narrazioni antecedenti? La domanda da farsi è: cosa stiamo perdendo qui?

Attenzione, non vogliamo discutere la correttezza o la legittimità di questo arsenale metaforico. Se i nostri racconti sportivi sono fatti di archetipi è perché questi, inevitabilmente, hanno una loro funzione. Ugualmente, se l’epica resiste così bene è soprattutto in virtù della sua efficacia. Giochi linguistici articolati, come sono i racconti sportivi, espongono le proprie metafore a una certa ecologia del discorso: ciò che è superfluo non resiste poi a lungo.

Il limite, a ben vedere, è non disporre di altro. Essere costretti a raccontare di Totti solo la cronaca o l’epica, rinunciando a dotarsi, parallelamente, di altre chiavi di interpretazione. E notate che il materiale extra-sportivo di e su Totti  (le barzellette, per esempio) non risolve la questione, ma piuttosto la aggrava. Appunto perché postula il principio che la conoscenza di ciò che accade fuori dal campo ci illumini su quello che succede dentro; lo sport, di nuovo, letto esclusivamente in dipendenza da qualcos’altro.

Insomma, non c’è dubbio che Totti sia stato una giovane promessa (la più brillante possibile), e che oggi, partita dopo partita, rinnovi l’immagine del campione senza fine.  Per quanto detto finora, che l’epica abbia un suo fondamento è perfino ovvio. Però esaurire in essa il nostro confronto con Francesco Totti vuol dire impoverirlo, attribuendo valore alle pratiche sportive solo come occasionale mimesis di cose che troverebbero residenza più legittima (viene da dire, avversando il principio, più nobile) in altri contesti. Tic interpretativo, crediamo, da respingere per intero.

Che fare allora? Non certo fare a meno delle nostre narrazioni – e come potremmo? – ma individuarne la portata; essere consapevoli dell’effetto deviante (normalizzante e quindi ingannevole) che determinano sul puro gesto sportivo. Il gol di Totti contro la Sampdoria vale più di ogni tentativo di nobilitarlo in poesia: così come il rito di Marassi che gli porge omaggio. Analogamente non rientra in nessun registro epico la aurea medietà del suo maestro, Carletto Mazzone,  che gli raccomanda: «Francesco, più della velocità delle gambe, conta la velocità di pensiero». Non è un Efesto: non c’è tono in lui che renda credibili le sue parole, conformi al modo che abbiamo di raccontare Totti.

Di queste impressioni, una soprendente conferma si trova in uno spot recentissimo, che ci è piovuto addosso mentre scrivevamo queste – troppe – righe. Un Totti incerto (commosso? certo più goffo di quanto appaia in una normale réclame di telefonia mobile) sembra quasi fare un bilancio a cuore aperto con i suoi tifosi. Li ringrazia di ciò che gli trasmettono, chiedendo poi: «Sapete cosa penso? Sapete chi sono davvero? Questo è qualcosa che non posso darvi».
C’è, infine, qualcosa di inesprimibile nell’esperienza sportiva: una cortina noumenica che divide il giocatore dagli spettatori. Totti, ciò che pensa, non può darcelo, e questa impossibilità si può nascondere, omettere, ma non eliminare. Saperla accogliere nelle nostre narrazioni sportive è un compito che ci pare delicato e necessario al tempo stesso.

Tra poche ore, Francesco Totti scenderà in campo per il più importante dei derby. Calpesterà per l’ennesima volta l’erba dell’Olimpico.  Ci guarderà, e noi lo guardermo. Poi toccherà il primo pallone.



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